Longevità, carattere, versatilità: intervista a Leo Nucci

Nel mondo della lirica si fatica a incontrare chi possa rivaleggiare con la longevità artistica e vocale di Leo Nucci: con il suo bagaglio di sessant’anni di palcoscenico, la girandola di incontri con i massimi nomi della musica, un’attitudine insieme schietta e rigorosamente professionale. Da giovane apprendista in officina che si innamora del canto, formatosi con Giuseppe Marchesi a Bologna e Ottaviano Bizzarri a Milano, Nucci ha vissuto una carriera in costante ascesa, partendo dallo studio meticoloso e approdando all’Olimpo della lirica. La Scala, Royal Opera House, Metropolitan, Liceu, Opera di Parigi e centinaia di ribalte internazionali, senza contare le incisioni, anch’esse iconiche. Se dopo i settant’anni cominci a studiare violoncello con lo spirito di un ragazzino, ma hai alle spalle la carriera di uno dei baritoni più acclamati del mondo e ti sei esibito, peraltro, anche sotto la direzione di Rostropovič, significa che il sacro fuoco dell’arte arde a temperatura eccezionale. Il tutto rinfocolato da un valore speciale, quello dell’umiltà. E il segreto di Nucci è proprio questo: “Sono un uomo curioso – ama ripetere – Così mi definisco, mi piace essere sempre in moto e scoprire; anzi, scoprirmi: ogni giorno desidero capire meglio che cosa sto facendo”. Rigoletto per 600 volte, Figaro in 300 recite: già questi sono record da primato in una storia artistica che lo ha visto in oltre 70 ruoli diversi.

INTERVISTA

Maestro Nucci, non solo mantiene una forma fisica esemplare, ma continua anche a mettersi alla prova in campi diversi. Ha cominciato lo studio del violoncello in età relativamente avanzata, giusto?

Esatto, ho cominciato a studiare il violoncello a 74 anni. Prima, però, avevo suonato il trombone. Insomma, ho sempre cercato non solo di fare, ma di capire fino in fondo cosa significhi davvero questo mestiere.

Essere un cantante del suo livello non le ha mai impedito di approfondire le conoscenze. È questo, forse, un messaggio cruciale da trasmettere ai giovani e a qualcuno che si ritiene già arrivato?

Non mi piace mettermi in cattedra, non l’ho mai fatto e non voglio iniziare adesso. Però posso dire una cosa: negli ultimi anni ho scoperto la dimensione delle masterclass. All’inizio è stato un po’ complicato, ma poi mi sono reso conto, facendone davvero tante, che imparo moltissimo anch’io. Lo dico senza vergogna: è un processo a doppia direzione. Certo, spero di trasmettere qualcosa agli altri, ma io stesso imparo sempre. È un mestiere che non finisce mai di insegnarti, come succede in tutti i mestieri del mondo.

Il suo percorso artistico ha mostrato sia linearità sia capacità di muoversi in un ambito mutevole e stratificato.

La musica è già un’arte complessa di per sé, ma quando c’è di mezzo il canto si entra in un universo ancora più articolato. Ci si lega alla storia, alla letteratura… Ci sono opere che sono veri e propri monumenti storici. Si pensi a Tosca o, per fare un esempio curioso, a La battaglia di Legnano: tutto ha un contesto, riferimenti precisi. È un lavoro profondissimo che ha bisogno di basi tecniche certe e di grande preparazione.

Il mio maestro di violino diceva che gli strumenti ad arco possono essere “isterici”, cavarne un suono bello non è affatto semplice, come l’apparato vocale che inevitabilmente ha i suoi capricci. Da esperto di lungo corso, cosa ne dice?

Ho un piccolo gruppo – siamo due violoncelli, pianoforte e soprano – e, appena tornato, abbiamo subito ricominciato a provare insieme. In questi giorni sto suonando e provando ogni giorno: suonare è, innanzitutto, una questione tecnica. Suonare bene, però, è un’altra storia. Lì entrano in gioco la sensibilità, la conoscenza, l’esperienza. È la stessa cosa nel canto: è tutto molto complesso, ed è proprio questo che mi spinge ad andare avanti, perché sono curioso e ogni giorno scopro qualcosa di nuovo. Anche convivere con una voce, specie quando si è impegnati a certi livelli, è come convivere con una personalità a tratti imprevedibile. Tornado al mio piccolo gruppo, l’altra sera ci siamo trovati a lavorare su una frase che richiedeva un diminuendo con un colore particolare, quella che chiamiamo la doppia forcella in dinamica. Ho cercato di trovare il colore giusto: non sono certo Rostropovič, sia chiaro, anche se ho avuto l’onore di cantare sotto la sua direzione… Ma, per ottenere l’effetto desiderato, ho spostato l’archetto verso il ponticello, e poi, nel diminuendo, sono venuto progressivamente verso il diapason. Ecco, è la stessa cosa nel canto. Lo stesso principio: ci sono mille accorgimenti, mille sfumature. Pensiamo agli strumenti a corda: tra la tavola armonica e la parte inferiore dello strumento c’è quel piccolo legnetto che oggi chiamiamo “anima” e che una volta si chiamava “diaframma”. È un’analogia perfetta.

Da un punto di vista preparatorio e tecnico, cosa consiglierebbe ai giovani che si avvicinano allo studio del canto? Lei ha parlato spesso dei vocalizzi, dei quali in gioventù ha fatto una lunga “dieta”, ma se volessimo partire davvero dalle basi, qual è secondo lei un consiglio importante per lo studio quotidiano?

Me lo hanno chiesto tante volte: “Maestro, fa lezioni di canto?”. Io non l’ho mai fatto e credo che non lo farò mai. È una responsabilità enorme. Prima di tutto per una questione etica: rovinare una persona che sogna è la cosa più facile del mondo. Basta dare un’impostazione sbagliata, e se la porterà dietro per tutta la vita. I difetti si prendono subito, ma poi correggerli è difficilissimo, come in tutti gli aspetti della vita. Mi ricordo ancora quando, dopo qualche anno di studio, una sera andai a cantare in uno di quei famosi club musicali che c’erano a Bologna – stiamo parlando davvero di un’altra epoca. Dopo una di quelle esibizioni, tornai a lezione e il mio maestro mi chiuse letteralmente la porta in faccia perché ero andato a cantare senza il suo permesso. Con lui ho studiato sei anni, dal 1959 al 1965, praticamente facendo solo vocalizzi. Basti pensare che tra il 1963 e il 1964 feci il militare, e quando tornai riprendemmo subito da capo. Io avevo cominciato a studiare nel 1958, ma all’inizio non si ingranava ancora perché il lavoro mi assorbiva. Fu la grande soprano Gigliola Frazzoni, il cui cognato era un amico di famiglia, a indicarmi il suo maestro. Così, nel 1958, andai da Giuseppe Marchesi, il mio insegnante appunto di vocalizzi. Dal 1965 in poi mi avviai ai concorsi, e sino al 1967 ne vinsi diversi importanti, anche a Spoleto. Da lì è iniziata la mia storia. Dico tutto questo per sottolineare quanto sia stato importante quel lunghissimo periodo dedicato solo ai vocalizzi.

E oggi nelle sue masterclass, proprio come quella che ha tenuto a Cuneo, insegna ai giovani a partire con il piede giusto. Cosa non le piace, però, di quello che vede tra gli aspiranti cantanti lirici?

Oggi purtroppo – lo dico senza voler giudicare nessuno, ma con un certo rammarico – c’è una tendenza legata più all’immagine che alla sostanza. Durante le mie masterclass ascolto ragazzi che rispetto moltissimo, per i quali provo anche una certa tenerezza. E non lo dico per ruffianeria. Ma a volte portano delle arie, dei pezzi che forse prima dovrebbero ascoltare interpretati da chi ha la giusta maturità tecnica e artistica, piuttosto che cantarli loro stessi. È come voler iniziare a suonare il Concerto di Dvořák per violoncello prima ancora di aver imparato a fare bene le corde vuote.

Allora quale è un consiglio essenziale che può dare il grande baritono Leo Nucci?

Il consiglio che posso dare è sempre questo: bisogna partire dai primi passi, senza fretta. Però c’è un fatto che ho capito in tanti anni: tutti chiedono consigli, ma pochissimi poi li ascoltano davvero, anche perché, diciamoci la verità, spesso i consigli non servono a niente. E oggi, in un mondo che corre dietro all’immagine, questo è ancora più evidente. A Cuneo ho avuto modo di riflettere su un fatto che ho notato. Durante due settimane di masterclass tenute precedentemente mi hanno chiesto di cantare qualcosa, proprio come poi è successo anche a Cuneo. E io… sì, forse sarebbe meglio non farlo [ride], ma la passione è la passione, e credo di poterlo ancora fare. Il video ripreso in quel momento è stato caricato online; ha totalizzato sinora più di 600 mila visualizzazioni, e nel primo giorno era già a 250 mila.

La sua carriera continua a vivere anche su YouTube o su Spotify. Le sue esecuzioni e registrazioni hanno tantissime visualizzazioni e ascolti, non solo il classicissimo Largo al factotum o i duetti con Pavarotti, ma anche le arie più particolari che intercettano i gusti di melomani e appassionati. Molti aspiranti hanno la possibilità di accedere a contenuti anche educativi dal punto di vista della formazione canora. Però, allo stesso tempo, è come se si fosse un po’ spezzata la catena della trasmissione culturale e didattica: manca quel riferimento chiaro al “maestro” autorevole, e tanti giovani cercano punti di riferimento per orientarsi.

La critica non va rivolta ai media contemporanei, assolutamente. Il problema nasce quando un ragazzo inesperto parte subito cercando la visibilità, senza aver prima costruito le basi. Bisogna avere la pazienza di fare le corde vuote per un periodo, come dicevamo prima, e solo dopo buttarsi nella visibilità di oggi, da cui ormai non si scappa più. Ma ben venga la visibilità, per carità, non ho nulla contro. Il punto è che bisogna partire nel modo giusto. Mi ricordo una delle mie prime masterclass, tanti anni fa, credo più di 40 anni fa, a Chicago. Alla fine, un ragazzo mi chiese: “Maestro, quanto tempo ci vuole per guadagnare abbastanza per comprarsi una Ferrari?”. Ecco, quello fa capire tanto! Oggi la visibilità è la Ferrari. Ma prima di arrivare lì, bisogna guadagnarsi davvero il diritto di essere visti e ascoltati. In tanti seminari ho conosciuto ragazzi volenterosi, a volte con problemi di pronuncia su cui lavorare, come capita con studenti cinesi o sud-coreani, ma si impegnano e la platea li applaude. Alcuni ovviamente possono avere anche limiti tecnici. E’ lì che bisogna insistere, ma personalmente. Tornano ancora in mente i miei esordi: quando dopo tre anni di studio una domenica sera andai a cantare senza permesso, e il lunedì seguente il mio maestro mi cacciò via dalla lezione. Questo è un lavoro non serioso, ma serio. È un’arte che richiede rigore.

Maestro Nucci, lei ha anche una vocalità che è rimasta intatta nel tempo, mentre molti suoi colleghi, purtroppo, hanno dovuto ricorrere alle cure di otorini o specialisti. C’è, ovviamente, chi le chiederebbe la ricetta.

Io in vita mia non sono mai andato da un otorino. Poi c’è questa moda che c’è oggi di andare continuamente dai foniatri… Non ho mai fatto una cosa del genere. Nessuno ha mai messo le mani sulle mie corde vocali, e non ho mai avuto un problema di abbassamento della voce. Ho iniziato a studiare nel gennaio del 1958, e lo dico tra virgolette e senza virgolette [ride].

Secondo lei è questione di genetica, oppure è stata soprattutto la cura del corpo e della voce?

Io, tutte le sere, dal lunedì al venerdì, finito il lavoro, prima in officina e poi quando passai alla concessionaria della Fiat, alle 19,30 andavo a studiare e facevo vocalizzi. È stata quella disciplina a impostarmi correttamente. Non ho mai sentito le mie corde vocali sforzarsi quando cantavo. E attenzione: dopo il debutto ho cantato anche qualcosa di particolarmente impegnativo. Ad esempio, ho affrontato Tristano e Isotta. Ho cantato anche Don Carlo in versione francese, con Abbado, e l’ho inciso. Però ho questa consapevolezza: non canto in francese né in tedesco, perché mi si sposterebbe la posizione della voce.

Ci sono cantanti lirici che smettono dopo una ventina d’anni di carriera. 

In rete spopolano i video di Magda Olivero che canta a 99 anni. Bene, consiglio di ascoltare “Sempre libera degg’io” della Traviata come la canta Magda Olivero, che è stata una carissima amica e collega: tecnicamente perfetta. Non è paragonabile a nessun’altra. Non c’è un suono che non sia giusto nella posizione. Ecco, basta rendersi conto di come la esegue nel 1953 e di come lo fa vent’anni dopo. Canta in modo semplicemente giusto. E lo fa pure alla soglia dei 100 anni! Mentre Giuseppe Di Stefano, con il quale ho condiviso molti percorsi e della cui amicizia mi onoravo, a quarant’anni già arrancava perché tecnicamente se ne fregava. Ci vuole, quindi, molta cura tecnica. Il canto non è aprire la bocca e basta. Un aneddoto recente: recentemente al supermercato con mia moglie, incontriamo una signora che conosciamo bene, che canta a tutte Messe in parrocchia. La signora mi dice: “Leo, hai una caramella? Perché da un po’ quando faccio una frase mi si rompe la voce”. Le ho risposto: “Senti come parli: parli tutta in gola!”. Oggi vai a teatro e senti cantare, sì, tutti intonati, ma la posizione vocale è sbagliata quasi sempre. Sono tutti bassi di posizione, quasi tutti, anche tra i grandi che inaugurano teatri importanti. Ripeto: non dico tutti, ma quasi. Fra l’altro, un problema che vedo durante le masterclass sta anche nel fatto che oggi il vocalizzo cantato non lo fa più nessuno, senza contare che ormai nessuno più usa il sistema di solmisazione Do-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si preferendo invece la notazione anglosassone A-B-C-D-E-F-G.

Qui stiamo andando alle radici del Belcanto, e di come si sia trasformato con l’avvento delle manie foniatriche e con certe tecniche moderne come gli “intubamenti” della voce…

Adesso ti sparano mille teorie. Ma dico, uno arriva con la telecamera dentro la gola e ti dice: “Tu puoi cantare Rigoletto, tu puoi cantare Otello”? Siamo fuori di senno: questo è assurdo. Nel 2013 sono stato presidente del concorso “Giuseppe Verdi” di Busseto, perché Carlo Bergonzi mi chiese di farlo al posto suo. Ricordo che quell’anno vinsero tre ragazzi coreani. A giudizio della giuria, erano loro i migliori. Durante la premiazione, in piazza, c’erano quasi mille persone. A un certo punto un signore, che conosceva bene il mondo della lirica, si alzò e disse: “Leo, mi dispiace, ma queste non sono voci verdiane”. Io, che sono tutto tranne che timido, presi il microfono e gli dissi: “Bene, spiegami tu: qual è la voce verdiana? Quella che canta Rigoletto, quella che canta Traviata, quella che canta Trovatore, quella che canta Otello, quella che canta Fenton del Falstaff?”. Non se l’aspettava, ci rimase male. Ma come si fa a giudicare una voce in modo così assoluto? Stiamo scherzando? Di cosa stiamo parlando? È aria fritta. Parliamo del nulla, di cose che non stanno né in cielo né in terra. Io personalmente, che ho fatto la Tosca con Muti, ho ricevuto una parte di buona critica per l’interpretazione di Scarpia ma poi non mi sono più misurato con questi ruoli, perché ormai l’immaginario ha incasellato Scarpia nel cliché di uno che sbatte i pugni sul tavolo, e io lo vedo diversamente. Bisogna a un certo punto fare i conti con l’insistenza di certi stereotipi.

Sempre in tema di tecnica vocale, cosa dice di certe impostazioni che trovano origine in metodologie come quella di Melocchi sull’affondo? Anche su Mario Del Monaco c’è molta diatriba a questo proposito, che è poi l’annosa bilancia tra meccanica e naturalezza. 

Con Del Monaco ci ho cantato. Mario Del Monanco è andato da Arturo Melocchi per sei mesi, e me lo ha detto lui. È una caratteristica tipica del regno della lirica la creazione di mitologie. Si pensi alla “scuola del muggito” [definizione di Rodolfo Celletti per stigmatizzare la rozzezza vocale]. Questo è il discorso sulla lirica che distorce tutto ciò che è attuale perché si mitizza eccessivamente il passato. Ricordo benissimo nel 1960, al Comunale di Bologna, quando andava in scena la Traviata con Virginia Zeani, Alfredo Kraus, il grandissimo baritono Mario Zanasi; direttore d’orchestra Arturo Basile. Nel loggione c’ero anche io. Uno dice riferendosi a Kraus: “Ma è un tenore questo qui? All’epoca di Gigli…”. E io rispondo: “Ma tu Gigli lo hai mai sentito dal vivo? L’hai sentito nei dischi”. Voglio dire, questo è il mondo dell’opera: tutto si tramanda e si racconta, e spesso diventa leggenda. Ho avuto l’onore di essere amico di Alfredo Kraus, di aver lavorato con lui e anche di ricevere forse il primo premio intitolato a lui. Bisognava capire di essere di fronte a un grandissimo tenore. Poi certo, la voce può piacere o non piacere: questo è un altro discorso. La voce è anche questione di gusto personale. Ma non si può denigrare esclusivamente per gusto personale. Ci sono troppe teorie di sistema… ecco, bisogna andarci cauti. Ricordo quando uscì il disco dell’Aida, dove cantavo con Domingo e Ricciarelli, diretto da Abbado. Rodolfo Celletti mi fece letteralmente a pezzi: me ne disse di tutti i colori. Un’altra volta, sempre Celletti, mi chiese in modo piuttosto sferzante: “Ma perché lei, quando fa l’acuto, tira su la lingua?”. Però, voglio dire, io non andavo a lezione da lui! [ride] È successo anche con Pavarotti: finché non ha preso lezioni da Celletti, anche lui riceveva un certo tipo di atteggiamento critico. Poi, una volta andato a lezione, la musica è cambiata. La lirica è anche questo: un ambiente dove le opinioni girano e spesso si trasformano. Non scandalizziamoci. L’unica cosa che mi sento davvero di dire ai giovani è questa: andate avanti con determinazione, ma sappiate che questo è un lavoro serio, serissimo.

Una risposta a tante domande sulla tecnica è già nella sua straordinaria longevità artistica, agganciata ad una tradizione che va molto indietro nel tempo.

Arrivare all’ottantaquattresimo anno di vita e cantare MacbethCortigiani Non ti scordar di me, come ho fatto a Cuneo… beh, o sei sostenuto da una tecnica solida, oppure fai una figuraccia. Ho avuto una svolta nella vita che è stata la mia fortuna: quando emigrai a Milano ed entrai nel coro della Scala. All’epoca ho conosciuto mia moglie, fortuna della mia vita, e anche un maestro d’eccezione: Ottaviano Bizzarri. Bizzarri aveva studiato insieme a Beniamino Gigli alla scuola di Antonio Cotogni. Da Cotogni avevano studiato anche Titta Ruffo, Lauri Volpi e uno stuolo di altri nomi importanti. Cotogni era il baritono verdiano per eccellenza, quello che cantava Don Carlo e altre grandi opere. È celebre anche per un episodio: quando Verdi gli disse “Io non ho scritto così”, lui rispose: “Sì, maestro, però così come ha scritto lei ci mette in difficoltà”. Verdi gli chiese di cantare, ascoltò e poi disse: “Ha ragione, faccia come dice lei”. Questa è una tradizione tramandata direttamente. Ho avuto la fortuna anche di studiare qualcosa con il maestro Tenaglia, che era l’archivista famoso di Ricordi. Lui aveva addirittura la delega da parte di Puccini per dire “sì” o “no” ai cantanti che venivano scritturati. Oggi, chiunque viene scritturato, ma allora no: se l’autore non era d’accordo, non si cantava nei grandi teatri, al massimo nei piccoli. Inoltre ho fatto esperienza per 15 anni in provincia, lavorando con direttori d’orchestra che oggi, se ne parlassi, qualcuno scoppierebbe a ridere, eppure loro sì che sapevano veramente come si doveva mettere il suono, come si doveva lavorare.

Quindi oggi il livello di attenzione e meticolosità è calato?

Oggi siamo in un’epoca dove, purtroppo, si dirige e basta. Non si guarda più cosa succede davvero sul palcoscenico. Uno canta, e il direttore controlla solo se la semicroma è giusta e via. Tutto risolto. E questo, a modo mio – lo dico usando il condizionale – potrebbe essere uno dei grandi problemi dell’attualità.

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