Maestro indiscusso della tradizione rossiniana, Ugo Benelli ha abbracciato anche incursioni nel barocco, nel tardo-ottocentesco e nel novecentesco. Il tenore genovese ha traguardato 90 anni, ma continua a curare il suo selezionato numero di allievi. È stato riconosciuto non solo per le sue qualità vocali, ma anche per le ottime doti sceniche e la versatilità come attore comico, sviluppando con grandi registi un approccio teatrale innovativo all’opera.
Tenore di grazia di levatura internazionale, Benelli si è sempre distinto per una voce chiara e leggera nel registro acuto, unita a una timbratura robusta in quello centrale. La sua saggezza artistica si è manifestata anche nelle scelte di repertorio: ha sempre rifiutato ruoli considerati troppo “impattanti” per preservare la voce e garantire la longevità della sua carriera, che si è estesa per ben 46 anni, concludendosi settantenne con un affettuoso cammeo nel Don Basilio. Facendo suo il motto “cantare sugli interessi, non sul capitale” di Giambattista Rubini.
Tra i momenti più significativi spicca la sostituzione di Luciano Pavarotti ne “La figlia del reggimento” alla Scala – un evento che cambiò totalmente il corso della sua vita artistica. Ha collaborato con direttori d’orchestra di fama mondiale, primo fra tutti Claudio Abbado, con cui ha instaurato un rapporto di intensa collaborazione in produzioni scaligere e tournée internazionali.
La sua ricca discografia include registrazioni storiche come “Il barbiere di Siviglia” e “La Cenerentola” per la Decca.
Ugo Benelli rappresenta l’esempio perfetto di un tenore che, combinando una solida tecnica con scelte artistiche ponderate e grandi doti interpretative, ha lasciato un segno indelebile nella storia del Belcanto.
INTERVISTA
E’ cominciato in chiesa, con una voce bianca e già notevole?
Tutto è cominciato in chiesa, sì. Quando cantavo ai vespri pomeridiani, dopo aver giocato in cortile, avevamo l’obbligo di andare in chiesa per la benedizione. Mi piacevano molto i canti gregoriani, e li amo ancora adesso perché permettono alla voce di spaziare; sono canti adatti al bel canto. Lì accadde tutto: le pie donne mi guardavano, creandomi anche un certo imbarazzo. Un grande organista, venuto in quella chiesa per onorare la festa della patrona, Santa Maria Maddalena a Genova, evidentemente mi aveva sentito cantare dall’organo. Mi fece chiamare e mi disse: “Hai un tesoro in gola, bambino! Non aprire più bocca fino a 18 anni, potresti avere delle belle sorprese”.
Da quel momento è partito subito un interesse per la musica e ci sono stati gli incontri con i primi maestri, sino a Ettore Campogalliani.
E’ stato cruciale il percorso con il maestro Piero Magenta: sono usciti dalla sua scuola allievi come Giuseppe Campora, Rosetta Noli, Ottavio Garaventa, Piero De Palma, Enrico Campi, Federico Davià, Piero Guelfi. Quasi tutti i professionisti sono usciti dalla scuola di Piero Magenta. Meno, invece, da Remondini e da Costaguta… per quest’ultimo ricordiamo il grande Agostino Lazzari.
Poi è riuscito a entrare nella Scuola di Perfezionamento della Scala e di lì ha spiccato il volo.
Lì avevamo un maestro a disposizione per insegnarci gli spartiti. E poi avevamo la sorveglianza, il controllo di Giulio Confalonieri. Confalonieri era già uno dei più importanti critici a livello europeo.
Anche sua moglie Angela l’ha aiutata nell’esercizio quotidiano, accompagnandola al pianoforte e con un consiglio costante?
Mia moglie avrebbe potuto fare il critico musicale per la sua competenza vocale. Quando ascolta i miei allievi, individua subito pregi e difetti, andando ancora più a fondo delle mie stesse osservazioni. È stata un grande aiuto, soprattutto nelle serate in cui ero meno brillante. La mattina dopo la recita (perché nell’immediatezza non avrei preso bene le critiche), con gentilezza, mi suggeriva come migliorare certe note. I suoi consigli sono stati preziosi. In un periodo di incertezza vocale, quando comprai un registratore all’avanguardia per l’epoca, lei mi accompagnava al pianoforte e ascoltavamo le nostre prove sulle registrazioni. Il suo aiuto è stato determinante per la mia voce.
Un momento topico è nel 1969 quando improvvisamente è chiamato a sostituire Luciano Pavarotti ne “La figlia del reggimento” alla Scala. Quello è stato il punto che ha impresso una svolta alla carriera?
Quel momento fu il più importante della mia vita. Se potessi rivivere un singolo istante, sceglierei quella sera in cui sostituii Pavarotti. Ero pieno di paure, certo, ma determinato a cogliere quell’opportunità. Non volevo arrendermi. Pensavo: “Devo giocarmi questa carta, perché potrebbe essere la svolta per la mia carriera futura”. E così fu. Dopo quella sostituzione, feci circa quaranta recite con la Freni ne “La figlia del reggimento”, oltre a molte altre rappresentazioni, anche al Liceu di Barcellona. Ecco cosa accadde quella sera in cui Pavarotti non stava bene: era appena tornato dall’America con un problema per cui, improvvisamente e senza una spiegazione, la sua temperatura corporea saliva a 39°, costringendolo a rinunciare allo spettacolo. Quando annunciarono “Gentile pubblico, vogliamo avvertirvi che per indisposizione del tenore Pavarotti sarà sostituito da Ugo Benelli…”, non finirono neppure di pronunciare il nome che si levò un urlo di disappunto, una protesta clamorosa. Come si può ben immaginare, i posti del loggione con Pavarotti e la Freni erano sempre tutti esauriti e la gente dormiva per strada sotto i portici della Scala per essere tra i primi a entrare e acquistare i biglietti del loggione a prezzo ridotto. Fortunatamente l’opera iniziava con un duetto e in quel duetto io avevo accanto la Freni. Quindi un applauso lo dovettero pur fare, ma fu un applauso di saluto alla diva. “Adesso poi sentiremo cosa sa fare questo tenore”, pensavano.
La grinta e l’adrenalina del momento l’aiutò?
Fortunatamente, anche grazie a una certa gioventù, il mio personaggio dal punto di vista fisico era molto diverso da quello di Luciano. Saltavo sul palcoscenico, ero baldanzoso. Avevo tutto da giocarmi, dovevo giocarmi tutto. Ed ebbi la fortuna di centrare tutti quei nove Do, uno dietro l’altro, in maniera – diciamo la parola giusta – trionfale. Il più pericoloso di tutti i Do era l’ultimo, perché è una nota tenuta. Per un tenore lirico pieno come Pavarotti era un Do come quello della Bohème, de “La gelida manina”. Ma per un tenore lirico leggero come me era un Do rischioso. Però, per fortuna, tutte le volte che ho cantato quell’opera – forse proprio perché quella nota, sicuramente, paura la faceva – mi è sempre uscita bene.
Lei è considerato un punto di riferimento nell’interpretazione del repertorio rossiniano, però ha spaziato anche tra ruoli diversi, quasi un centinaio di personaggi, affrontando sfide anche un po’ più sostenute.
Sì, però non ho mai sconfinato dal mio repertorio. Perché le cose più forti che ho cantato sono state “I pescatori di perle”, “Linda di Chamounix”, “Elisabetta Regina d’Inghilterra”, “La Sonnambula”.
E “La figlia del reggimento”.
E “La figlia del reggimento”, chiaramente. Però non ho mai oltrepassato le linee. Negli anni ‘70 avrei dovuto ampliare, ad un certo punto, dato che avevo una certa facilità. Non “La Traviata”, perché tutti vogliono cantarla nonostante abbia frasi drammatiche da lirico abbondante, ma forse avrei dovuto allargare il repertorio, almeno di un certo orizzonte. Avrei voluto fare “Rigoletto” e “La favorita”, per esempio, ma un po’ per pigrizia e un po’ per resistenza al cambiamento, sono rimasto nel mio repertorio. Poi ovviamente c’era il timore di fare il passo più lungo della gamba.
L’importanza di scegliere il repertorio. Probabilmente è un argomento di cui si dovrebbe parlare di più, anche nei confronti dei giovani o aspiranti tenori. Cosa ne pensa?
Meglio scegliere ruoli da cantare con gli interessi che dover cantare con i capitali. Ricordo benissimo una un tenore che cantava all’Opera di Roma un’opera lirica e la sera dopo andava al San Carlo a cantare un’opera drammatica. Era una voce eccezionale, ma durò molto poco. Bisogna fare i conti con il rischio di mettere a dura prova le corde vocali, che non si rigenerano. Si fa presto a chiudere una carriera.
Lei ha cantato quasi fino a 70 anni.
Perché ho cambiato repertorio, pur avendo sempre delle belle soddisfazioni, nel senso che sono riuscito a cantare non più giovanissimo “Il mondo della luna” di Haydn. Ho cantato “Les brigands” di Offenbach a Ginevra, nella parte da protagonista. Ho fatto anche la parte del carceriere in un’opera contemporanea. Insomma, ho avuto soddisfazioni ad una età avanzata. Poi non posso non citare Don Basilio, che nell’anno mozartiano ho cantato in grandi istituzioni, da Chicago a Bruxelles al Maggio Musicale Fiorentino.
Si è anche saputo affrancare dal ruolo di tenore buffo strettamente caratterista.
Mi sono misurato con il Capitano nel “Wozzeck” o il Principe in “Lulu” di Alban Berg, che sono stati non meno impegnativi, anzi molto interessanti. Ruoli più drammatici. Finalmente non ero più l’amoroso o il pusillanime, come il fasullo Lindoro de “L’italiana in Algeri”. Avanti nella carriera mi è piaciuto interpretare personaggi più decisionisti.
Oggi ha 90 anni, coltiva le qualità di diversi allievi selezionati e ha titolo per dire qualcosa sulla longevità artistica e vocale. Suggerimenti per durare nel tempo?
Bisogna avere la fortuna oppure l’intelligenza di trovare il maestro giusto. Cercatevi un buon maestro e cercate di non cambiarlo, perché se andrete da un altro vi dirà tutt’altra cosa. Se andate da un terzo vi dirà che gli altri due non avevano fatto bene. Insomma, quando si comincia ad avere nella testa una certa confusione su come deve essere il vostro studio del canto, siete praticamente finiti.
Come spiegherebbe in parole semplici il concetto di “cantar sul fiato” della tradizione belcantistica italiana?
Se si prova a soffiare con la bocca un po’ chiusa si vedrà che risponde immediatamente dal punto dove si deve attaccare col canto. Provate a soffiare chiudendo la bocca come se si volesse gonfiare una camera d’aria o un pallone di gomma, ecco. In quel momento si sentirà che un muscolo della pancia si irrigidisce. Quello è il diaframma sul quale si dovrà appoggiare il fiato. Appoggiare, ho detto, non spingere. Dico sempre che il canto è come una macchina che va in salita: non è detto che se si va in salita si deve schiacciare di più l’acceleratore, perché la macchina può fare qualche balzo e fermarsi. Quindi è la giusta pressione sul fiato che fa il bel canto. La regolazione sul fiato si trova soffiando, così si trova il punto esatto del canto. Si diceva anche di provare a emettere dei suoni sollevando un peso davanti a sé. Anche perché quel peso che si solleva – come una sedia, una poltroncina – immediatamente, per sollevare quel peso, si sentirà che reagisce quel muscolo che chiamiamo diaframma, ecco. Per avere un’idea di dove sorge il canto è tutto lì. Cantare sul fiato è quello. Invece io dico sempre: un materasso d’acqua. Perché se si pensa di camminare su un materasso pieno d’acqua, c’è una certa morbidezza sotto i piedi. E questo per dare l’idea – difficilissima da spiegare – di che cos’è il diaframma.
Altro punto focale sul quale si è soliti chiedere ricette: come gestire il passaggio?
Non saprei neanche dettagliarlo a parole. Ho visto che Pavarotti cominciava a passare già dal Mi bemolle a raccogliere un po’ il suono. Io ho avuto la fortuna che quel maestro, l’avvocato Piero Magenta – suo padre era stato ambasciatore dello zar di Russia, era una famiglia molto colta – non mi ha mai parlato del passaggio. Sono andato da lui a 18 anni, con una voce vergine. Nei primi anni di carriera, se si ascolta nelle registrazioni come canto quelle note sono perfette. Perché non si sente il passaggio: si sente la voce che va dove deve andare.
Allora oggi ci vorrebbe un po’ più di ritorno al canto naturale rispetto agli artifici, anche tecnici, che si usano e si fanno usare?
Sì, perché se si leggono tutti questi “scrittori di canto” che sanno tutto, creano una grande confusione. Ti parlano di tutte le cose mediche, di tutti i termini scientifici. Il canto è libertà, il canto è benessere, il canto è gioia. Se ti stanchi vuol dire che canti male. Devi fare la tua lezione di un’ora, farla bene, con i vocalizzi, con qualche frase cantata e devi finire che vorresti continuare, invece il maestro ti dice: “Guarda che non abbiamo fatto un’ora, abbiamo fatto già un’ora e un quarto, lascia perdere e vai via che mi devo riposare”. Ma tu vorresti continuare.
Tito Schipa le ha detto che è fondamentale la flessibilità laringea o morbidezza di gola. Quanto conta questa rilassatezza?
Ero ancora un ragazzino. Seppi che c’era Schipa e riuscii a convincerlo ad avere una conversazione, tale era già la mia curiosità. Mi pare che mi ricevette in un bar. Era ossessivo nel ripetere che la gola non è mai abbastanza rilassata. Aveva già una certa età e insisteva continuamente su questo punto. “Bisogna cantare con la gola rilassata, bisogna cantare con la gola rilassata”: mi è rimasto nel cervello questo suo mantra.
Al di là delle particolarità delle voci singole e della varietà che giustamente c’è anche nel panorama della lirica, non pensa che oggi ci siano molti tenori ingolati?
Se ci penso, mi fa sorridere. Dovrebbero fare gli attori di prosa, no? Parlare con la voce ingolata dà un certo tono. Ma gli attori hanno un’impostazione diversa dai cantati.
Come far correre la voce?
Bisognerebbe avere la fortuna, invece di fare lezioni in una stanza, di avere un un ambiente molto grande nel quale studiare, perché se se è un ambiente molto grande e con una certa buona acustica, il cantante si rende conto se la sua voce è a fuoco, se la sua voce ha un ritorno di suono. Ma è molto difficile, perché in una stanza piccola, anche cinque metri per cinque, è difficile che il cantante riesca ad equilibrare la sua voce. È una delle cose più più difficili da fare. Occorrerebbe avere la possibilità di avere un grande ambiente e questo potrebbe aiutare il cantante molto.
Mancano i punti di riferimento, i maestri com’erano i maestri del passato?
Insegnano tutti canto. Eh sì, insegnanti ce ne sono e tanti. Da quelli modestissimi a quelli esosi. Io sono modesto, ma Sesto Bruscantini mi diede un grande consiglio e mi disse: “Fatti pagare, poco, ma fatti pagare per la tua reputazione e perché chi viene a lezione si senta sdebitato nei tuoi confronti”. Conosco un celeberrimo che chiede 1000 euro per ora di lezione. Poi magari ci sono anche ex coristi, e tra loro alcuni bravi, che chiedono 20 euro. Chi non ha possibilità finanziarie va a lezione da insegnanti che chiedono poco, a volte però ci sono voci eccezionali che dopo un paio di mesi se ne vanno per lidi più ambiziosi.
Quanto conta il dono di natura e il talento naturale, da una parte, e invece la tecnica e la disciplina, dall’altra?
Io cantavo sempre. Mia madre ha dovuto sopportare la mia mania dei tenori e i miei acuti dalla mattina alla sera, mi ricordo. Lei preparava da mangiare e io là con il Si de “La donna è mobile”. Insomma, c’è chi ha la voce di natura e chi se l’è costruita. Una volta un tenore spagnolo fece un’audizione alla mia agenzia e fu scartato. Nella mia agenzia c’erano consiglieri come il maestro Giulini e Confalonieri. Quel tenore, all’epoca, fu scartato perché non aveva una voce bella ed evidentemente non aveva ancora raggiunto quella tecnica che poi lo ha reso superiore a tutti noi.
La sua discografia è ricca e lei ha inciso in un periodo in cui le qualità vocali erano tenute in conto rigorosissimo, così da consegnare qualcosa di valore ai posteri.
Tante incisioni, sì. Pensi che Giuseppe Taddei, carissimo amico, quando tornava a Genova (abitava a Roma) veniva sempre a cena da noi e mia madre gli faceva melanzane, peperoni e zucchine ripiene, dei quali era golosissimo. Taddei mi diceva: “Hai avuto fortuna, perché la tua voce è brutta”. Secondo lui io avevo una brutta voce. E invece, secondo le case discografiche, avevo una voce bella, perché ho inciso con tutte le etichette: EMI, Deutsche Grammophon, Sony, Decca. Ho più di 30 titoli. Ho avuto questa fortuna perché quello che rimane di un cantante sono queste testimonianze vocali. E quando incidevo io, le case discografiche pubblicavano uno o due dischi l’anno, non di più. Adesso c’è un’invasione di uscite. Allora uscivano, mi ricordo, un paio di dischi della Decca, un paio di dischi della Deutsche Grammophon per esempio.
Ma anche i tempi erano meno vorticosi e meno scellerati. C’era il tempo di prepararsi, di sintonizzarsi prima di incidere.
Noi avevamo 10-12 giorni o due settimane per fare queste registrazioni e potevamo anche scegliere il giorno in cui cantare le arie più difficili o i punti che per noi erano più impervi. C’è una attendibilità della voce al suo punto massimo in queste registrazioni, si può dire. Perciò io sono molto favorevole alle incisioni, anche quelle che non sono dal vivo. Il live è la verità, però le registrazioni in studio lasciano una testimonianza di quello che un artista può raggiungere con la tranquillità e dimostrano qual è il massimo che può dare.
Perché oggi le grandi voci stentano ad emergere, al netto del discorso commerciale che privilegia stili lontani dalla lirica? Con i timpani sommersi dal rumore, peraltro, non è facile distinguere e cogliere.
Verissimo: siamo pieni di rumori. Talenti continuano ad essercene, ma non è facile scoprirli e indirizzarli. A lezione da me, per esempio, attualmente viene un tenore cinese che parla cinque lingue, di grande educazione e che fa acuti bellissimi. Farà strada. Io amo gli acuti cristallini, come li aveva Luciano Pavarotti da giovane.
Un tenore del passato che lei ha ammirato particolarmente (escludendo Caruso, Gigli e Pertile)?
Gianni Poggi, moltissimo. Gianni Poggi, come tenore lirico, moltissimo. La tecnica di Lauri Volpi mi piaceva, ma mi era un po’ antipatico il suo modo di pronunciarsi sulle questioni. Quando Del Monaco cantò “Otello”, lui andò evidentemente a sentirlo e disse che quel tenore, nel giro di pochi anni, sarebbe finito. E invece Del Monaco ha cantato “Otello” per quasi 20 anni. Quindi nel dare giudizi bisogna stare molto attenti. Questa certa antipatia che ho avuto per le dichiarazioni di Lauri Volpi mi ha portato una certa antipatia anche per la sua voce. Mi spiace che queste due cose non siano disgiunte.
Cosa mi dice di Alfredo Kraus, che insieme a Schipa che menzionavamo prima ha fatto la storia dei tenori di grazia?
Gli acuti di Kraus erano più belli in teatro, perché tendeva sempre a dare loro una certa punta per riempire completamente l’ambiente. Questo suono dei suoi acuti nelle registrazioni non è così bello come in teatro. Io l’ho sentito tante volte perché al São Carlos di Lisbona cantava le opere più popolari e aveva fatto il mio nome per “Il barbiere”, per “Falstaff”, quindi avevo modo di ascoltarlo spesso. Mi ricordo un suo “Werther” proprio lì a Lisbona: gli acuti erano bellissimi in teatro, mentre nelle incisioni erano un po’ pungenti.
Manca qualcosa oggi alle voci che ambiscono ad essere riconosciute?
È natura e cervello quella combinazione che fa la voce. Forse manca un po’ di intelligenza oggi.
L’esercizio? La disciplina?
Io tutti i giorni facevo da un quarto d’ora a tre quarti d’ora di vocalizzi. La mattina della recita alle 11 andavo nella saletta del teatro dove c’era un pianoforte e facevo un’oretta di vocalizzi, qualche frase di quell’opera che magari era fra le più belle o fra le più difficili, e poi quando andavo in scena ero abbastanza tranquillo perché la mia coscienza era a posto. Cercavo di dare il massimo. E le farò una confessione. Per certe opere, come “Il Conte Ory”, che ha dei momenti femminei specialmente nei duetti con la contessa, poi ridiventa se stesso con altro tipo di voce, dovevo stare attento a non sorpassare certi limiti. Alla fine de “Il Conte Ory”, dovevo fumare una sigaretta perché mi dicevo: “Ecco, ce l’hai fatta!”. Una sigaretta mi donava l’idea di rilassarmi, di aver conquistato il premio di una cosa proibita.
A proposito di vocalizzi, lei suggerisce di usare la lettera “U” per cercare il suono?
Anche Gigli diceva così. Avevo 17 anni e andai a sentire Gigli, che aveva più di 60 anni, in “Cavalleria” e “Pagliacci” al Teatro Augustus di Genova, che ora è una sala Bingo. Mi ricordo che mi presentai all’uscita degli artisti, già avido di informazioni e curiosità per cominciare a studiare canto. Lì c’era un tenore che era in carriera, Angelo Marchiandi, che si accostò a Gigli per chiedergli spiegazioni; io mi feci lì sotto, perché volevo assolutamente sentire qualche suggerimento. Gigli diceva: “Quando non sai dove mettere la voce, fai la lettera U, perché se è giusta esce bella, altrimenti cominci a tossire. Una U sbagliata solletica la tosse”. Questo fu un consiglio prezioso.
In “Cantanti, vil razza dannata”, libro di circa vent’anni fa, ha raccolto aneddoti, storie e riflessioni di tanti anni di carriera, senza risparmiare la satira verso una certa guapperia del mondo della lirica. C’è un altro volume in uscita, vero?
Sarà un libro di quasi 300 pagine. Sarà uno sguardo completo sulla mia attività. Il manoscritto è già stato letto in anteprima e apprezzato da Davide Livermore, da Donato Renzetti – uno dei massimi direttori d’orchestra al mondo -, dal nuovo Sovrintendente del Teatro alla Scala Fortunato Ortombina. Sono molto felice di questi tre apprezzamenti che ho già ricevuto. Nella pubblicazione, curata da Bruno Baudissone, viene ripercorsa tutta la mia carriera.